bevande zuccherate

Zuccheri…cominciamo a parlarne

Nella maggioranza dei casi l’obesità pediatrica è dovuta a uno sbilanciamento tra le calorie ingerite e il dispendio energetico, con un conseguente accumulo di grasso in eccesso, cioè si mangia troppo e/o si brucia troppo poco. Ciò è frutto di un’interazione tra due fattori ambientali: il consumo di cibo molto calorico e uno stile di vita sedentario in cui ci si muove troppo poco. In questo caso si parla di obesità essenziale e l’approccio terapeutico è incentrato sulle modifiche dello stile di vita.

Mangiare troppo.

Sembra un concetto semplice ma vi assicuro che nell’era del consumismo, del benessere dei paesi occidentali e sviluppati, non lo è affatto.

Si ‘mangia troppo’ quando si introducono più calorie di quante ne servono e se ne spendono.  Ma è proprio chiaro a tutti ‘quanto cibo’ è giusto introdurre?

Lasciando da parte i discorsi sul conteggio delle calorie (poco rilevante a mio avviso) mi interessa focalizzare l’attenzione sull’indice glicemico.

L’indice glicemico (IG) misura la velocità con cui si verifica l’aumento di glucosio nel sangue in seguito all’assunzione di cibo che contiene carboidrati, paragonato a un alimento che ha un indice glicemico pari a 100 (glucosio o pane bianco).

Se un prodotto ha IG pari a 60, significa che assumendo 50gr di quel cibo, la glicemia sale del 60% rispetto a quanto aumenterebbe con 50gr di glucosio (o pane bianco).

Un IG è alto se è maggiore di 70 (pane bianco, miele, patate, crackers); medio se è tra 56 e 69 (ananas, muesli, cornflakes, uva, pane di segale, pasta); basso se il suo valore è inferiore a 55 (prugne, albicocche, lenticchie, yogurt, latte di soia, fagioli).

L’indice glicemico si concentra essenzialmente sulla ‘qualità’ dei carboidrati, mentre il carico glicemico (CG) si focalizza sulla ‘quantità’ specifica del carboidrato assunto e sul contenuto di zuccheri per porzione.

Il CG indica la risposta glicemica calcolata in base alla quantità di carboidrati di quell’alimento, cioè IG x grammi di carboidrati dell’alimento. Dividendo poi questo valore per 100 si avrà il valore del carico glicemico. Si considera CG basso se inferiore a 10 (zucca, anguria, melone, pane di segale, pesche, kiwi), moderato tra 10 e 20 (pane integrale, banane, riso integrale), alto se superiore a 20 (maccheroni, gnocchi di patate, riso bianco).

Perché è importante conoscere l’indice glicemico e il carico glicemico?

Come molti studi hanno confermato, la scelta di cibi con ridotto indice glicemico e carico glicemico, come per es. le verdure e i legumi, consente di evitare i rapidi e cospicui aumenti di glicemia e insulina e di ottenere un miglior controllo sulla glicemia, e ciò è importante sia nei soggetti diabetici che in coloro che vogliono prevenire il diabete. Il consumo abituale di pasti ad alto indice glicemico determina invece continui picchi di secrezione di insulina dopo il pasto per contrastare gli alti livelli di glucosio nel sangue, e ciò pone sotto stress le cellule del pancreas che a lungo termine potrebbero esaurire la loro capacità di produrre insulina e/o  portare a sviluppare la resistenza insulinica.

La risposta glicemica dipende da molteplici fattori legati alla natura dell’alimento che abbiamo mangiato e anche dagli altri cibi assunti durante il pasto.

Meritano un articolo dedicato il tipo di zuccheri, la natura e la forma dell’amido e la presenza di altri nutrienti all’interno del cibo o del pasto che possono ridurre l’assorbimento dei carboidrati.

Una cosa però è certa: chi mi conosce sa che non smetterò mai di ripetere fino alla nausea quanto i cibi industriali, in particolare merendine e similari e soprattutto bevande zuccherate siano un vero e proprio attentato alla salute pubblica.

Naturalmente non possiamo attribuire solo al cibo ‘spazzatura’ la responsabilità dell’obesità.

In America si dice “the devil is in the details’, ‘il diavolo è nei particolari’. Spesso una dieta ricca in carboidrati in forme ‘insospettabili’ è responsabile di sovrappeso e squilibri metabolici più di una dieta ricca di altri alimenti con moderati accessi a dolci e simili. Per es., a parità di quantità, lo zucchero da cucina fa aumentare meno rapidamente il glucosio nel sangue rispetto a pane, patate, riso e frutta.

Rimane comunque altissimo il rischio riguardo al  consumo di bevande zuccherate considerando 2 cose:

  • In un mezzo liquido lo zucchero è percepito meno dalla nostra lingua e quindi riusciamo ad introdurne alte quantità inconsapevolmente;
  • Leggendo l’etichetta delle bibite, ricordarsi sempre della celebre frase di Pollan “Non mangiate nulla con più di 5 ingredienti o con ingredienti che vostra nonna non riconoscerebbe come cibo o non saprebbe pronunciare”.                                                                                                                                                                        Molto interessante questo articolo apparso su “Il fatto alimentare”    :       https://ilfattoalimentare.it/coca-cola-lobbying-obesita.html
Topi-microbiota

Microbiota intestinale e obesità

Un interessante studio pubblicato su Science nel 2013 (Science. 2013 Sep 6;341. Ridaura VK, et al. Gut microbiota from twins discordant for obesity modulate metabolism in mice.) dimostra in modo molto chiaro il ruolo del microbiota intestinale nel determinare il sovrappeso o l’obesità.

Un microbiota alterato per qualità e quantità di ceppi batterici induce produzione di sostanze proinfiammatorie che stimolano l’accumulo di grasso e quindi sovrappeso e obesità.

In questo studio il microbiota umano di una persona obesa è stato trapiantato in un topo magro che, nonostante fosse alimentato con una dieta a basso contenuto di grassi e ad alto contenuto di fibra, ha sviluppato obesità.

Al contrario, trapiantando il microbiota di una persona magra in un topo magro che consumava la stessa dieta del primo topo, ha mantenuto la sua forma magra anche se i due topi fossero  nella stessa gabbietta,  nonostante quindi il topo magro sicuramente fosse venuto in contatto con i batteri del microbiota del topo obeso, considerando l’abitudine di questi animali alla coprofagia (ingestione di feci).

Questo studio ci dimostra non solo quanto la composizione del microbiota influenzi il metabolismo e la distribuzione della massa corporea ma dimostra anche che il microbiota sano ed equilibrato di una persona magra risulta più forte e resiliente verso le alterazioni e gli attacchi provenienti dall’esterno.

Un microbiota sano ed equilibrato è fondamentale per mantenere uno stato di salute e di equilibrio stabile. La prevenzione è la strategia migliore per preservare e difendere un microbiota sano.

Solo uno stile di vita in cui l’alimentazione sia equilibrata e l’attività fisica costante, può essere garanzia di una vita longeva e sana.

 

microbiota-intestinale

Funzionalità intestinale..parliamone

Ogni volta che chiedo ai miei pazienti ‘Come va il transito intestinale?’ lo sguardo si perde nel vuoto. Un po’ per la vaghezza della domanda e un po’, forse, anche per la reticenza a parlare della propria attività intestinale..chissà perché poi!

Eppure tutto il nostro benessere (ma proprio tutto!) dipende dal corretto funzionamento dell’apparato digerente in particolare del tratto gastro-intestinale.

 

Andiamo per ordine.

Il corpo umano è colonizzato da trilioni di cellule microbiche. Le ritroviamo sulla pelle, nel tratto naso-faringeo, nella zona uro-genitale ma la maggior parte del microbiota umano vive nell’intestino.

La superficie dell’ intestino è di 300metri quadrati , per una lunghezza di 7 metri.

Solo nel colon la densità delle cellule microbiche supera 10alla 12esima cellule/g di contenuto che equivale a 1–2 kg di peso corporeo.

 

La comunità di tali microrganismi (batteri, archibatteri, virus, cellule eucariote) è definita MICROBIOTA. L’insieme di tutti gli elementi genomici (DNA e tutto il materiale genetico in genere) di questi microrganismi è definito MICROBIOMA. Si stima che il microbioma umano conti più di 5 milioni di geni differenti.

 

Questi organismi esistono in preciso equilibrio immunologico con l’ospite umano, il quale, ne permette la loro presenza in equilibrio mutualistico tra ospite e microbiota.

Cioè, l’ospite umano offre ‘alloggio’ in cambio del loro contributo in termini di ‘forza lavoro’ per garantire il funzionamento della vita stessa dell’organismo ospite.

Oggi è sempre più chiaro che la composizione della microflora intestinale determina lo stato di salute e la funzionalità del tratto gastro intestinale (GI) e la prevenzione dall’attacco di agenti patogeni.

Il tratto GI del feto è sterile fino alla nascita (oggi nuove evidenze), dopo la quale inizia la colonizzazione. Durante la crescita e con l’introduzione di cibi solidi, aumenta la diversità del microbiota. Nell’età adulta, la composizione della comunità batterica risulta relativamente stabile (ma varia tra differenti individui) , ed è dominata prevalentemente da Bacteroidetes (Bacteroides, Prevotella, Xylanibacter) e Firmicutes (Ruminococcus, Clostridium, Streptococcus, Bacilli, Lactobacillus, Eubacterium, Faecalibacterium prausnitzii, Roseburia intestinalis)

La variegata composizione e concentrazione microbica nelle varie porzioni del tratto GI è influenzata da numerosi fattori: il pH, la presenza di enzimi gastrici, sali biliari, la velocità del transito peristaltico, il potenziale redox, la tensione di ossigeno disciolto, la concentrazione dei nutrienti.

Appare quindi evidente che da persona a persona tale composizione può variare in base alla dieta, all’età, al livello di attività fisica e allo stile di vita in genere.

Il microbiota svolge molte importanti funzioni:

  • Digestione di nutrienti (carboidrati complessi, fibre)
  • Sintesi di vitamine (K e B)
  • Nutrizione e sostegno (trofismo) delle cellule del colon
  • Stimolazione del sistema immunitario
  • Resistenza ai batteri patogeni (cattivi)
  • Mantenimento della barriera intestinale (difesa)

Ne consegue che l’alterazione dell’equilibrio del microbiota intestinale conduce a patologie intestinali ( IBS e IBD- sindrome dell’intestino irritabile, malassorbimento, intolleranze alimentari) ed extraintestinali (patologie metaboliche, infezioni urinarie, scompenso cardiaco, cancro).

Ecco dunque spiegata la natura della mia domanda sul transito intestinale.

Riferire di eventuali dolori di maggiore o minore intensità al di sopra dell’ombelico o al di sotto di esso, a fitte, molto localizzato o più diffuso..può cominciare a rivelare molte cose sulla presenza/ assenza di uno squilibrio del microbiota.

La frequenza di espulsione delle feci è un altro dato importante.

Per la maggior parte dei gastroenterologi si può parlare di stitichezza se una persona evacua meno di 3 volte a settimana.

In realtà ci sono molti fattori che concorrono a stabilire una stitichezza, non solo la frequenza di evacuazione che comunque rimane soggettiva ma anche la persistente difficoltà a defecare e/o un mancato benessere dopo l’atto evacuativo, quale che sia la frequenza delle scariche.

C’è poi l’aspetto e la consistenza delle feci che ci danno informazioni sullo stato del microbiota.

La scala delle feci di Bristol è stata introdotta nel 1997 e si basa sulla versione originale del medico inglese Ken Heaton. La scala mostra 7 tipi diversi di consistenza.

Le feci normali si presentano come una salsiccia con crepe sulla superficie o  di aspetto liscio e morbido. Feci normali denotano quindi un buon rapporto tra la parte liquida e quella solida. Il microbiota è perfettamente in equilibrio e assorbe nutrienti e liquidi al massimo dell’efficienza.

Il tipo di feci che eliminiamo danno anche un’idea della velocità di transito degli scarti alimentari. Se le feci si presentano sempre a forma di salsiccia ma formata da grumi uniti tra loro (stipsi) vuol dire che i resti della digestione impiegano circa 100 ore per essere espulsi, nel caso di diarrea, intorno alle 10 ore.

Feci normali contengono batteri vari, mentre in feci scomposte la diversità dei ceppi è ridotta.

Si può anche osservare quanto impiegano i pezzi di materiale fecale ad affondare nell’acqua: se le feci raggiungono immediatamente il fondo della tazza , contengono ancora sostanze non digerite; se affondano lentamente, contengono piccole bolle d’aria, liberate da batteri solitamente utili.

Tra grano e cielo

Gastronomia tradizionale e gastronomia metabolica..solo gusto o gusto + salute?

La parola ‘gastronomia’ (dal greco ‘gaster’=stomaco e ‘nomos’= norma) s’incontra per la prima volta nell’opera “Hedyàtheia” (Le delizie della vita) di Archestrato di Gela (IV sec. A.C.).

“La gastronomia aumenta la confidenza dell’amicizia, disarma l’odio, agevola gli affari e ci offre la sola gioia che, non essendo seguita da stanchezza, ci riposa perfino da tutte le altre”.

Purtroppo però la gastronomia tradizionale non fornisce la garanzia per la sopravvivenza dell’uomo a lungo termine e la prevenzione della Sindrome Metabolica. Sono due le ragioni più importanti:

la prima è dovuta alla gran quantità di stimoli esterni ed interni che spingono ad assumere troppo cibo.

Gli stimoli esterni riguardano l’ambiente circostante che offre con estrema facilità enormi quantità e qualità di cibi. Gli stimoli interni si riferiscono ad una complessa regolazione neuro-endocrina non adatta alle nuove condizioni ambientali.  L’uomo è stato progettato per cercare il cibo non per rifiutarlo e si trova del tutto indifeso di fronte ai potenti stimoli visivi, olfattivi e gustativi.

La seconda spiegazione è sostenuta dalla difficoltà di conoscere il contenuto energetico delle  preparazioni gastronomiche, soprattutto quando si consumano i pasti fuori casa.

E’ perciò necessario introdurre il concetto di Gastronomia Metabolica in cui l’attenzione  si deve espandere dal gusto dei cibi al  mondo della salute.

Non si tratta di evitare i grandi errori una tantum ma i piccoli errori giornalieri che si sommano giorno dopo giorno negli anni e si traducono in gravi danni metabolici. Bastano 100 calorie in più al giorno per aumentare di 5Kg il peso in un anno.

Nel 1993 veniva lanciato il Diabetes Prevention Program (DPP) , per verificare se l’educazione alimentare poteva essere efficace per prevenire la Sindrome Metabolica in soggetti ad alto rischio.

Gli stili di vita da correggere erano l’eccesso di grassi nell’alimentazione e la sedentarietà.

Nel 2002 venivano pubblicati i risultati.  Il rischio di sviluppare diabete si era ridotto del 58% dopo 3 anni e nei soggetti oltre i 60 anni del 71%.

E’ necessario dunque prestare molta attenzione al contenuto di grassi della nostra alimentazione.

Si tratta di fare piccoli passi e cominciare a pensare ‘magro’.

I primi  passi:

  • Fai una colazione senza grassi.

Colazione grassa: latte intero (cappuccino)+cornetto+zucchero=343 cal,  16,8gr di grassi

Colazione magra: latte o yogurt scremato+cereali-cornflakes+banana=250cal, 1,81gr di grassi.

  • Riduci il consumo di carne , formaggi, pollame.

Riduci a 5 volte a settimana l’uso di carne, formaggi e pollame; usa il pesce almeno 2 volte a settimana.  Ciò comporta un aumento della frutta, della verdura, del riso e della pasta, ovviamente cucinati senza grassi. Per es. prova la differenza tra un piatto di verdura condita con olio e sale e verdura condita con fettine di arancia o di mela o con spezie (origano, senape, ecc.). Per ogni piatto ricco di grassi che abbandoni devi introdurre 10 piatti poveri di grassi.

  • Aumenta la varietà dei cibi poveri di grassi.

Presta attenzione a ciò che compri:

  • Scegli tagli magri della carne, fesa, spalla, girello, filetto, noce, sottofesa, lombata, scamone, controfiletto.
  • Consuma più frequentemente pollo senza pelle, tacchino, coniglio rispetto alla carne di manzo e maiale.
  • Aumenta l’uso del pesce.
  • Riduci la frequenza dell’uso dei formaggi.
  • Preferisci i formaggi freschi(ricotti, fiocchi, mozzarella).
  • Riduci la frequenza d’uso dei salumi.
  • Confronta l’etichetta di due prodotti simili.
  • Controlla le etichette dei prodotti precotti: in genere sono ad alto contenuto di grassi.
  • Aumenta gli acquisti di legumi, frutta, verdura e cereali.

 

  • Togli il grasso visibile.

 

  • Usa con parsimonia i condimenti:
  • Cucina al forno, alla piastra, al vapore, alla griglia.
  • Se occasionalmente friggi qualche alimento fallo scolare e asciugalo con la carta.
  • Condisci con aromi, succo di limone, aceto.
  • Per la cottura non aggiungere olio, ma usa vino, brodo, latte scremato.

 

  • Leggi bene le etichette. Spesso cibi con pochi grassi o senza grassi contengono comunque molte calorie per l’aggiunta di zuccheri!

 

  • Fai porzioni più piccole. Soprattutto se si mangia al ristorante ricordarsi di chiedere le mezze porzioni considerando che le porzioni offerte ‘fuori’ sono strategicamente abbondanti. Più si mangia più si ha voglia di mangiare.

 

  • Decidi cosa mangiare prima di guardare il menù. Per non farsi influenzare da offerte troppo appetitose meglio programmare prima cosa si intende mangiare.

 

  • Usare strumenti appropriati per l’uso dei grassi. Ricordando che 5gr di olio (un cucchiaino da caffè) contengono 45calorie. Senza precisione si può incorrere in errore di oltre 200cal al giorno.

 

  • Esempi di menù secondo gastronomia tradizionale e metabolica:

 

Pranzo gastronomia tradizionale: Spaghetti (100gr)con olio (15gr) e pomodori pelati (300gr)+ formaggio emmenthal (100gr)+patate fritte (200gr)+ pane all’olio (100gr)+pere (250gr). Tot. Cal 1719. Grassi  65,2gr

Pranzo gastronomia metabolica: Orecchiette (80gr-pasta fresca) con olio (6gr) e cime di rapa (400gr)+ fagioli (150gr)+ verdura con limone (200gr)+ pane a lievitaz. naturale (100gr)+ pesche (250gr). Tot. Cal. 903. Grassi 7,6gr.

coronavirus

Covid-19 e stile di vita

Il 16 novembre al tg2 Post è intervenuto in studio il direttore sanitario dell’ospedale Spallanzani di Roma Francesco Vaia. Ha riferito di un interessante studio che è stato effettuato recentemente su 61 pazienti deceduti per covid-19 tra Lazio, Umbria e Abruzzo.

L’età media dei pazienti era di 64 anni.

E’ stato interessante rilevare che in ciascuna di queste persone fossero presenti patologie concomitanti. In particolare si trattava di pazienti con ipertensione, cardiopatie ischemiche e patologie cardiovascolari in genere, diabete e obesità grave. Ancora una volta viene messa in evidenza l’importanza dello stile di vita.

61 persone decedute, età media 64 anni…

…sicuramente avrebbero potuto offrire il loro prezioso contributo alle loro famiglie e alla comunità ancora molto a lungo.

Rifletto e mi chiedo…davvero a stroncare queste vite è stato un virus? Oppure uno stile di vita scorretto che perpetrato per anni ha creato le condizioni affinchè un virus potesse avere la meglio su un sistema dal funzionamento altamente compromesso?

 

intolleranze-alimentari

Allergie e Intolleranze Alimentari…Keep calm!

Sempre più spesso mi capita di affrontare le ansie di chi pensa che il motivo del proprio sovrappeso sia legato a  qualche allergia/intolleranza e si sottopone a durissime diete di esclusione che seppur conducano effettivamente a una perdita di peso sono spesso responsabili di accumulo di stress che alla lunga si traduce in un nuovo accumulo di grasso.

Proviamo a fare chiarezza.

Innanzitutto c’è una differenza sostanziale tra allergia e intolleranza. Entrambe sono classificate come ‘reazioni avverse agli alimenti’ ma differiscono moltissimo nel meccanismo con cui si manifestano.

Le allergie sono il risultato di una risposta immunologica guidata dalle immunoglobuline IgE e dalla liberazione di istamina,  in seguito all’ingestione dell’alimento. La reazione più frequente in questi casi è immediata (entro al max 1 ora dall’assunzione) con presenza di gonfiore e dolore  intensi, asma, eritema, orticaria, fino ad arrivare allo shock anafilattico. Secondo le statistiche  le allergie alimentari vere e proprie hanno un incidenza molto bassa; è sicuramente più frequente in età pediatrica, specie quando sia presente una familiarità, e decresce con l’età.

Le intolleranze alimentari (IA), molto più frequenti delle allergie, non sono immunologicamente mediate (non provocano risposta immunitaria) ma sono riconducibili a differenti meccanismi patologici: deficit enzimatici, sia di enzimi digestivi (per es. deficit di lattasi nell’intolleranza al lattosio) che di enzimi non digestivi (deficit di glucosio 6 P-deidrogenasi nel favismo), in questo caso si tratta di ‘pseudoallergie’; reazioni ‘ipersensibili’ quali quelle prodotte da cibi ricchi di istamina o istamino-liberatori (cioccolata, vino rosso, crostacei, fragole, uova, carne di maiale soprattutto salsicce, ananas, papaya); le intolleranze di origine farmocologica dovute a sostanze naturalmente presenti negli alimenti o aggiunte (addittivi alimentari) dotate di qualche effetto farmocologico (per es. amine vasoattive quali la tiramina presente nei formaggi invecchiati).

La risposta fisica ad una intolleranza alimentare può essere immediata o  presentarsi dopo un certo tempo, fino a 72 ore dopo l’ingestione dell’alimento.

Le IA sono soggette alla cross-reazione, cioè chi è intollerante al pomodoro ad es., sarà intollerante anche agli altri componenti della stessa famiglia delle Solanacee e cioè a patate, peperoni e melanzane. L’intolleranza scompare con la sospensione dell’assunzione degli alimenti di quella famiglia. Tale sospensione può scatenare inizialmente una ‘reazione di astinenza’ con il ripresentarsi dei sintomi cronici in forma acuta per 3-4 giorni, per poi scomparire quando l’organismo ha terminato di eliminare tutte le tossine.

Le IA sono sicuramente le più diffuse e su queste mi voglio concentrare. E’ infatti necessario aprire la mente a un nuovo modo di pensarle per non rimanerne intrappolati e imparare a gestirle.

Le cause dell’IA possono essere varie e tutte ascrivibili a uno squilibrio di interazione tra il nostro corpo e l’ambiente esterno.

Qualunque cibo introduciamo nel nostro corpo è una sostanza ‘estranea’ , se non viene riconosciuta tale e non viene attaccata dal sistema immunitario è grazie a un preciso sistema fisiologico  di “induzione di tolleranza orale” che avviene sulla mucosa intestinale (GALT: tessuto linfoide associato al tratto intestinale).

Nel corso della vita  introduciamo nel nostro corpo tonnellate di alimenti diversi, ciascuno dei quali viene ‘indagato’, ‘riconosciuto’, ‘accettato’ e ‘inglobato’. Alla nascita il GALT non è ancora del tutto sviluppato, ci vuole un po’ di tempo prima che funzioni a regime, e questo spiegherebbe alcune allergie o intolleranze in età pediatrica che poi spariscono con la crescita.

L’Ecologia clinica è nata nel 1951 dal dott. Theron G. Randolph, riguarda le patologie che possono essere causate dall’ambiente: tutto ciò che viene riversato sul terreno, nelle acque, nell’aria e negli alimenti può essere causa di tossicità. Grazie a questa disciplina è possibile comprendere  il ‘senso’ della dilagante diffusione delle IA.

Affinché un organismo possa ‘abituarsi’ a una determinata nuova sostanza ci vuole tempo. La teoria della discordanza tra genoma dell’Homo sapiens e ambiente ce ne dà una dimostrazione concreta.

I cambiamenti ambientali cominciati con l’allevamento e l’agricoltura (10.000 anni fa) sono avvenuti troppo recentemente nella scala dell’evoluzione affinché il genoma umano potesse adattarsi e tale mancato adattamento si manifesta come patologia e aumentata morbilità (tendenza ad ammalarsi). La selezione naturale lavora lentamente ed è quindi probabile “che i problemi secondari dovuti all’introduzione di un nuovo cibo persistano per qualche migliaio di anni” (J. Brostoff).  Questo sarebbe vero per alimenti di largo consumo come il latte, il pomodoro e il grano.

Brostoff dice che molte piante non erano state programmate per diventare cibo per l’uomo e avrebbero in sé meccanismi di difesa costituiti da specifiche molecole: in pratica “non volevano essere mangiate”. Primo fra tutti il grano ( ma anche segale, orzo e avena) che contiene alcune proteine ‘difensive’ che in alcuni soggetti provocano una reazione avversa conosciuta come celiachia. Sembrerebbe dunque che il celiaco sia una vittima inconsapevole del lento adattamento fra il genoma umano e il grano, lo dimostra anche il carattere ereditario di tale patologia.

Se pensiamo alle manipolazioni che sul cibo vengono fatte dalle industrie alimentari sia sul confezionamento del cibo che sulle materie prime, va da se che i tempi di adattamento del GALT si allungano ancora di più e questo giustifica tutte le reazioni avverse che accusano la maggioranza delle persone che consumano soprattutto cibi preconfezionati.

Quando c’è un’ IA si instaura un’infiammazione cronica detta ‘aspecifica’ (che non si manifesta con alterazione di specifici valori ematochimici). Tale infiammazione provoca dismetabolismo e cioè l’organismo non brucia più in modo corretto carboidrati, proteine e lipidi e da qui si produce come risultato un aumento di peso corporeo.

A questo punto è necessario intervenire con opportuni sistemi di ‘riequilibrio’ disintossicando e contrastando l’infiammazione attraverso una dieta di esclusione a rotazione, facendo attenzione a introdurre il giusto apporto di minerali (la cui carenza è un fattore di scatenamento delle reazioni avverse agli alimenti essendo i minerali il substrato di molti enzimi), correggendo la disbiosi intestinale (sindrome batterica con cambiamento della flora intestinale) e contestualmente correggendo lo stile di vita in generale per mettere in condizione l’organismo di reagire all’infiammazione attingendo alle risorse difensive naturali al massimo dell’efficienza.

colazione

E’ vero che fare una prima colazione abbondante aiuta a non mettere su peso?

Verissimo!

Innanzitutto è bene sottolineare che esistono numerosissimi studi che dimostrano che i consumatori regolari di prima colazione sono meno predisposti al sovrappeso e all’obesità.

 Adolescenti normopeso che saltano spesso la prima colazione vanno più facilmente incontro all’aumento dell’indice di massa corporea in età adulta (Affenito et al., 2005; Roblin et al., 2007; Dubois et al., 2008; Timlin et al., 2008).

Uno studio prospettico condotto a partire dagli anni ‘60 su più di 24.000 ragazzi americani di età compresa tra gli 11 e i 18 anni ha permesso di rilevare come alla riduzione della frequenza del consumo della prima colazione si associ un aumento dell’indice di massa corporea.

Risultati analoghi anche per gli adulti.

Tra gli uomini con più di 46 anni di età partecipanti all’Health Professionals Follow-up Study, coloro che consumavano regolarmente la prima colazione, assumendo più di tre pasti nell’arco della giornata, andavano incontro ad un rischio minore di un incremento ponderale significativo nei 10 anni di osservazione (van der Heijden et al., 2007).

Ancora, secondo uno studio di coorte inglese condotto tra uomini e donne con più di quarant’anni di età, coloro che assumono una percentuale maggiore di calorie a colazione hanno un indice di massa corporea medio più basso, e vanno incontro ad un aumento di peso più contenuto nei 5 anni successivi (Purslow et al., 2008).

Ma cerchiamo di capirne il perché.

Dopo il digiuno notturno il nostro organismo è come un’automobile senza benzina alla quale si chiede di mettersi in marcia. Senza carburante nessuna macchina si mette in moto e qualora riuscisse a partire, avanzerà con difficoltà. A differenza dell’auto però, che possiamo lasciare parcheggiata in attesa di rifornirla, il nostro organismo non può permettersi di fermarsi, deve continuare a respirare, a far battere il cuore e a svolgere tutte le reazioni metaboliche per mantenerci in vita..tutte attività che richiedono energia e se non gli facciamo avere con regolarità i rifornimenti di carburante, sarà obbligato ad adattarsi bruciando meno e così il metabolismo di base si riduce, rallenta, favorendo così deposizione di massa grassa a scapito di quella magra.

L’assenza della prima colazione o comunque di una colazione adeguata provoca fame nervosa a metà mattina favorendo il consumo smodato di qualunque cosa capiti a tiro, provocando non solo sovraccarico di calorie ma, nel caso dell’introduzione di snack pronti, anche accumulo di calorie vuote di nutrienti.

Infatti, fare colazione non basta!

 E’ importante scegliere una prima colazione che fornisca l’energia e i nutrienti necessari a far funzionare il nostro organismo al massimo della sua efficienza.

Una colazione equilibrata sarà completa di :

  • cereali come fiocchi integrali o fette biscottate o biscotti secchi o pane
  • latte o yogurt o ricotta o formaggi freschi spalmabili come la crescenza o lo stracchino
  • marmellata o miele
  • frutta fresca o spremute/succhi di frutta o tè o tisane
  • qualche noce o mandorle.

Scegliere una buona colazione consente inoltre di educare il corpo e la mente a desiderare alimenti ricchi di nutrienti e poveri di calorie. Sedersi per un tempo adeguato a consumare la prima colazione consente di affrontare la giornata con minore stress e quindi a continuare a ‘volersi bene’ anche ai pasti successivi.



Pubblicato su Starbene febbraio 2015

 

gommadamasticare

Le gomme da masticare fanno ingrassare?

Non saranno certo le 5Kcal di un confetto o striscia di gomma senza zucchero a provocare alterazioni del peso in chi ne consuma moderatamente ( un paio di gomme al giorno masticate per non più di 10 minuti)! E’ doveroso però a tal proposito fare delle precisazioni.

Le gomme da masticare non possono essere considerate un vero e proprio ‘alimento’; intanto perché non vengono ingerite e poi perchè non apportano nutrienti utili al nostro metabolismo e la quantità di energia ad esse associata è irrisoria.

Eppure masticando una gomma ingeriamo tutta una serie di sostanze per lo più non naturali come ad es. antiossidanti E320 e E321, dannosi per la salute, e tutta una serie di dolcificanti o edulcoranti (soprattutto in quelle senza zucchero in sostituzione di saccarosio e fruttosio per evitarne l’effetto cariogeno) come sucralosio, aspartame, sorbitolo, mannitolo, maltitolo; queste sostanze sono originate dallo zucchero, ma così tanto alterati da non poter essere considerati alla stessa stregua. Qualcuno sostiene che siano addirittura più dannosi dello zucchero. Altri effetti indesiderati possono essere dolore addominale acuto e diarrea.

Un discorso a parte merita lo xilitolo. Secondo studi recenti lo xilitolo presenta un’importante attività cario-preventiva, anche a lungo termine, che viene esplicata attraverso la riduzione della concentrazione degli streptococchi del gruppo mutans e una conseguente riduzione dei livelli di acido lattico prodotti.

Per questo motivo il chewing-gum contenente xilitolo è stato considerato un ‘cibo funzionale’, ovvero un cibo che per contenuto e modalità di consumo può avere effetti benefici nei confronti della patologia cariosa. La masticazione infatti oltre a promuovere la rimozione dei residui di cibo e della placca dalle superfici dentali, stimola il flusso salivare e l’incremento del pH della saliva e della placca, migliorando la capacità tampone complessiva. La saliva stimolata, in più, si presenta in uno stato di sovra-saturazione minerale, promuovendo, quindi, il processo di remineralizzazione.

Attenzione però a non masticare troppo! Durante la masticazione di una gomma, si deglutisce spesso, con la conseguenza di introdurre nello stomaco aria in eccesso. Ecco perché un chewing gum subito dopo mangiato – pur favorendo la pulizia dei denti – può provocare gonfiori di stomaco e complicare la digestione. Se infatti la masticazione è protratta nel tempo senza ingestione di alcun cibo, la produzione di succhi gastrici  che stimola può favorire reflusso gastro esofageo.

Molti ricorrono alle gomme da masticare per avere un alito fresco. C’è un’alternativa: portare sempre con sé una piccola boccetta di menta piperita ad uso alimentare; basterà metterne in bocca una goccia per ottenere il medesimo effetto.

Un’ultimo ma non trascurabile effetto della gomma da masticare riguarda la sfera psicologica.

Appena in bocca sviluppano una certa resistenza alla masticazione, stimolando l’impulso aggressivo di mordere con forza; poi la resistenza si dissolve e la gomma diventa morbida, elastica, si lascia masticare senza fatica. Una dinamica che ha i suoi effetti psicologici, legati, probabilmente, a meccanismi ancestrali derivati dal mondo animale. Il passaggio duro-elastico del primo momento dà una rassicurante sensazione di successo, mentre la masticazione prolungata che segue aiuta ad attenuare la tensione nervosa.

In definitiva, le gomme da masticare sono un ottimo espediente per spezzare la fame, pulire i denti dopo un pasto fuori casa in assenza di spazzolino e scaricare la tensione nervosa ma, non essendo innocue, bisogna fare attenzione a consumarle con moderazione.

 

Pubblicato su Starbene marzo 2015

 

aceto

L’aceto balsamico fa ingrassare?

Assolutamente no! Anzi! Non solo offre l’opportunità di non ingrassare ma secondo studi recenti potremmo definirlo un ‘bruciagrassi’. Ma andiamo per ordine.

L’aceto balsamico ‘tradizionale’, tipico delle province di Modena e Reggio Emilia,  è ottenuto da mosto di uve Trebbiano e Lambrusco, cotto e fatto invecchiare (minimo 12 anni).

Tempi di stagionatura elevati producono un aceto balsamico ‘antico’ tradizionale, che viene utilizzato prevalentemente a crudo per insaporire carni, formaggi stagionati, verdure gratinate o saltate in padella, carpacci, dolci, frutta. Quelli molto vecchi (30-35 anni) sono usati anche come digestivo dopo i pasti.

Il ‘semplice’ aceto balsamico, invece, è il risultato della mistura di un mosto non concentrato o solo parzialmente concentrato con aceto balsamico invecchiato di almeno 12 anni e fatto fermentare per breve tempo per consentire ai due aceti di amalgamarsi. In questo tipo di aceto ‘semplice’ è  possibile l’aggiunta di caramello per correggere il colore.

Il “semplice” aceto balsamico, si usa come l’aceto di vino, per condire insalate e per cucinare.

Insomma, il balsamico tradizionale “antico” è un prodotto di altissima qualità e può essere molto costoso, destinato quindi ad impreziosire pietanze speciali per occasioni speciali; il balsamico “semplice”, invece, può essere usato tutti i giorni.

Fa parte di una categoria di alimenti definita ‘Spezie, aromi, erbe, sapori con poche calorie o senza e comunque senza grassi’. Infatti il contenuto calorico di un cucchiaio di aceto balsamico è di circa 13Kcal, praticamente nullo. Ciò che rende l’aceto balsamico un alimento amico dello ‘star bene e in forma’ è la sua capacità di aumentare l’appetibilità dei cibi  consentendo di evitare l’aggiunta di sale o altri condimenti ipercalorici ( oli o burro). In macedonia per es. è perfetto per esaltarne il gusto ed evitare di aggiungere zucchero.

Nell’aceto balsamico troviamo due classi di componenti principali: quella degli zuccheri (glucosio e fruttosio) e quella degli acidi organici ( acido acetico, gluconico, malico, tartarico, succinico); e una classe di composti minori: elementi volatili e molecole antiossidanti, soprattutto polifenoli.

Secondo uno studio recente pubblicato sul Diabetes Metabolism Journal, l’aceto balsamico è molto efficace sul controllo della glicemia. Alcuni ricercatori di Seul hanno osservato in animali da laboratorio che quando questi venivano sottoposti a diete ad elevato contenuto di grassi, abbinate con aceto balsamico, si attenuavano gli effetti negativi dei grassi sulle cellule beta del pancreas, quelle che secernono insulina quando aumentano i livelli di glucosio nel sangue. Si può quindi  ipotizzare un effetto preventivo nei confronti del diabete in quanto le cellule che producono insulina sarebbero meno esposte ai rischi di una dieta ricca di grassi.

Pare che l’ingrediente attivo sia l’acido acetico in grado di attenuare l’ iperglicemia.

I meccanismi non sono ancora noti però ci basti sapere che per ottenere tali effetti positivi basta una quantità di aceto balsamico pari a quella che aggiungiamo comunemente all’insalata!

 

Pubblicato su Starbene giugno 2015