Farfalla seno

Una Farfalla sul seno…aiutiamola a volare

Parlando in giro non c’è proprio nessuno che non mi racconti di avere in famiglia o tra conoscenti o personalmente esperienza di carcinoma mammario. Se diamo uno sguardo alle statistiche solo nel 2023 in Italia sono stati diagnosticati 55900 nuovi casi, ogni 15 minuti in Italia si registra una nuova diagnosi, ogni 19 secondi una donna in qualche parte del mondo riceve una diagnosi di tumore al seno.

Sicuramente oggi questa patologia è altamente curabile, molti sono i casi di donne che convivono con il cancro e tutte le sue complicazioni per anni portando avanti la loro vita personale e lavorativa con fatica, certamente, ma anche con grande soddisfazione, per aver imparato a ‘vincere’ giorno dopo giorno.

Non ci sono molte evidenze scientifiche riguardo all’alimentazione e il tumore al seno ma sappiamo che ci sono 2 fondamentali fattori di rischio legati allo stile di vita che possono avere un effetto negativo sull’insorgenza e sulla recidivazione del tumore al seno e alla prognosi: sovrappeso e/o obesità e consumo di alcol.

Riguardo al sovrappeso è importante monitorare il girovita, soprattutto in fase pre o perimenopausale.

Riguardo all’alcol bastano 50 gr di alcol al giorno, pari a poco più di 3 bicchieri per determinare un aumento del rischio di cancro della mammella del 50% rispetto a chi non beve. In fase pre e post menopausa se si supera 1 bicchiere al giorno aumenta il rischio.

Mangiare verdure a foglia verde sembra avere un ruolo protettivo.

Per i latticini e gli alimenti a base di soia non c’è alcuna evidenza scientifica che li correli all’aumento del rischio di tumore mammario sia per insorgenza che per recidive.

Non tutte le donne sono uguali e non tutti i tumori alla mammella possono essere trattati allo stesso modo.

Le terapie a disposizione sono diverse, chemioterapia, radioterapia, terapia ormonale; a volte servono tutte o solo alcune di queste, in ogni caso è necessario affrontare tutta una serie di effetti collaterali la cui entità può essere contenuta anche attraverso l’alimentazione.

Per costruire un’alimentazione che sia da supporto al sistema immunitario è necessario controllare le frequenze di consumo settimanale dei cereali e delle proteine.

FREQUENZA SETTIMANALE DEI CEREALI

Pasta integrale o di farina di legume: al massimo 3 volte a settimana solo a pranzo

Cereali in chicco integrali (riso, farro, orzo, quinoa, miglio, grano saraceno): almeno 6 volte a settimana (alternando la scelta), a pranzo o a cena.

Pane integrale: al massimo 4 volte a settimana, a pranzo o a cena.

Patate: al massimo 3 volte a settimana, a pranzo o a cena.

Legumi usati come quota carboidrato: almeno 2 volte a settimana, a pranzo o a cena;

ad es.: ceci + salmone + insalata di finocchi e arance; lenticchie + caprino + carote cotte; fagioli + tonno + insalata di pomodori.

 

FREQUENZA SETTIMANALE DELLE PROTEINE

Pesce fresco o surgelato: almeno 3 volte a settimana, a pranzo o a cena.

Pesce conservato (tonno o sgombro al naturale, salmone affumicato): al massimo 2 volte a settimana, a pranzo o a cena.

Carne: al massimo 2 volte a settimana, a pranzo o a cena. (preferendo quella bianca e tagli magri: pollo, tacchino, coniglio; la carne rossa – manzo, vitello, maiale, agnello – da evitare o  al massimo 1 volta al mese)

Uova: al massimo 3 volte a settimana (di cui almeno una preferibilmente a colazione)

Formaggio fresco magro (ricotta, primo sale, crescenza o stracchino, mozzarella): al massimo 3 volte a settimana, a pranzo o a cena (compresi i latticini vaccini eventualmente consumati a colazione, compresi latte e yogurt)

Affettato (bresaola, prosciutto crudo sgrassato, affettato di pollo o tacchino): al massimo 2 volte a settimana, a pranzo o a cena.

Legumi usati come quota proteica: almeno 1 volta a settimana, a pranzo o a cena, un pasto unico a base di legumi + verdura cotta a foglia verde + riso integrale o pane integrale tostato. Ad es: base piatto scarola o bieta + fagioli + un cucchiaio di riso integrale o una fettina di pane integrale tostato; base piatto spinaci + lenticchie + riso o pane integrali.

 

La diagnosi di carcinoma mammario deve però essere affrontata come un’opportunità di rivalutare tutta la storia personale fino al quel momento, non solo le abitudini alimentari ma anche lo stile di vita completo di attività fisica e modo di affrontare lo stress.

Alcuni studi hanno dimostrato che il tempo di raddoppiamento di un tumore varia da tumore a tumore e ci sono ampie fluttuazioni a seconda di cosa stia accadendo nella vita dell’ospite.

Emblematica la storia di Michelle, una donna con un nodulo al seno che è stato presente per 7 anni e improvvisamente cambiò gravemente dopo un periodo di stress acuto.

Il problema perciò non è solo la prevenzione della diffusione, ma perché e in quali condizioni, in alcune persone, depositi dormienti che già esistono si convertano in cancro clinico. L’inattività tumorale è condizionata da molte influenze ormonali e immunologiche, tutte funzioni del sistema psico endocrino e tutte assai suscettibili agli stress della vita.

In numerosi studi sul cancro, il fattore di rischio identificato in modo più continuativo è l’incapacità di esprimere le emozioni, soprattutto i sentimenti associati alla rabbia.

Alla luce di tutte queste evidenze è chiaro dunque che quando una donna riceve la diagnosi di carcinoma mammario dopo l’impatto sicuramente sconcertante all’inizio può e deve ‘decidere’ di mettere in campo tutto il suo potere che certamente porterà alla guarigione.

Indispensabili le cure mediche ma altrettanto decisivi i cambiamenti di tipo comportamentale che tanto incidono sui flussi energetici del corpo.

Via libera dunque ad alimentazione corretta ma anche attività fisica ed esercizi di meditazione e pratiche spirituali di ogni genere purchè siano nelle proprie corde.

 

 

 

 

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Dieta Planetaria = Dieta Mediterranea

Sono ormai più di 10  anni che la Dieta Mediterranea è stata riconosciuta patrimonio dell’Unesco.

Il riconoscimento del 2010 ha accolto la candidatura transnazionale di Italia, Spagna, Grecia e Marocco e nel 2013 è stata estesa anche a Cipro, Croazia e Portogallo.

 

La Dieta Mediterranea è molto di più di un semplice elenco di alimenti o una tabella nutrizionale. E’ uno stile di vita che comprende una serie di competenze, conoscenze, rituali, simboli e tradizioni concernenti la coltivazione , la raccolta, la pesca, l’allevamento, la conservazione, la cucina, la condivisione e il consumo del cibo. Naturalmente ci si riferisce a cibi freschi, non processati a livello industriale, locali e coltivati in modo sostenibile.

 

Recentemente la SINuC (Società Italiana di Nutrizione Clinica e Metabolismo) ha riferito dati secondo i quali “regimi alimentari scorretti causano 8 milioni di morti l’anno nel mondo, quanto le vittime del tabacco “.

 

“La chiave per diminuire l’impatto delle principali cause di morte e cronicità è adottare stili alimentari planetari, di tipo mediterraneo”, così come hanno sottolineato il Direttore generale dell’Oms Tedros Adhanom Ghebreyesus e il ministro della Salute Orazio Schillaci al Vertice sui Sistemi Alimentari delle Nazioni Unite alla Fao”, sottolinea Maurizio Muscaritoli, Presidente SINuC.

 

Eppure l’impatto della nutrizione è ancora sottovalutato in salute e in malattia.

 

“Nel Report emerso dal Forum Nutrendo 2023 si vede che nel 24% dei Corsi di Medicina e Chirurgia non esiste alcun riferimento all’insegnamento dello screening nutrizionale”, continua. “Nel 2019 la Commissione Eat della rivista Lancet ha proposto un modello alimentare sostenibile sia per la salute che per la tutela dei suoli e dell’ambiente in termini di emissione dei gas serra. Proprio pochi giorni fa sono stati presentati i risultati dell’applicazione del Planetary Health Diet Index a due campioni di 100mila persone. L’indice ha lo scopo di misurare gli effetti delle scelte alimentari sulla salute e sull’ambiente: è emerso che a una maggiore adesione alla dieta Planetaria corrisponde un rischio di morte inferiore del 25% per cancro, malattie cardiovascolari, malattie neurodegenerative e respiratorie” spiega Alessio Molfino della Sapienza Università di Roma.

 

Inoltre adottare la Dieta Planetaria porta a una diminuzione del rischio del 15% per cancro, 20% per le patologie neurodegenerative e del 50% per quelle respiratorie. Con un netto vantaggio rispetto alla cronicità, che è in tutto il mondo occidentale la sfida della sanità del futuro”. Gli studi di previsione mostrano che tra 10,9 e 11,6 milioni di morti precoci potrebbero essere evitate ogni anno, una riduzione pari al 19-23,6% rispetto agli attuali tassi di mortalità.

 

È cruciale dimezzare il consumo globale di alimenti come la carne rossa e lo zucchero, mentre il consumo di frutta, noci, verdura e legumi deve raddoppiare, conclude Muscaritoli.

 

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Dieta, colesterolo e…uova!

Sono ormai noti proprio a tutti i rischi connessi all’innalzamento dei valori di colesterolo del sangue, al punto che appena appare un asterisco nelle analisi in corrispondenza dei valori di colesterolo totale e/o LDL (colesterolo ‘cattivo’) l’ansia aumenta e subito il dito è puntato contro l’alimentazione e in modo selettivo e oserei dire quasi inquisitorio verso le uova.

In realtà la correlazione tra la quantità di colesterolo alimentare e i livelli di colesterolo ematico è una questione molto controversa e dibattuta all’interno della comunità scientifica sin dagli anni ’60.

Finalmente è apparsa una review recentissima (maggio 2022) di evidenze epidemiologiche, metanalisi e interventi clinici che approfondisce due punti fondamentali:

  • la persistente mancanza di correlazione tra colesterolo alimentare e livelli ematici dello stesso
  • gli effetti del colesterolo alimentare sui lipidi plasmatici e l’aterogenicità (cioè capacità di formare placche aterosclerotiche) delle lipoproteine.

Si parte dal presupposto che gli studi che valutano il colesterolo utilizzino le uova come fonte di derivazione alimentare, identificate come alimenti ad alto contenuto di colesterolo: 180-200 mg.

Nello specifico, dagli studi epidemiologici revisionati emerge che:

·     le uova, ma nessun’altra fonte, mostrano una relazione inversa con il rischio di dislipidemia. Il consumo di cibi ricchi di colesterolo non aumenta il rischio di alterazione dei lipidi nel sangue e quindi di eventi cardiovascolari (CVD).

·     Sebbene il consumo di uova sia inversamente associato alla mortalità, l’assunzione di colesterolo da altre fonti mostra un’associazione positiva, suggerendo che le uova possono offrire un effetto protettivo che non si trova in altre fonti di colesterolo come carne rossa, maiale, formaggio o burro, che hanno anche un notevole quantità di grassi saturi, un nutriente positivamente legato a eventi CVD.
Diversi autori hanno attribuito questo effetto protettivo alle proprietà antinfiammatorie delle uova e al contenuto di vitamine, minerali e antiossidanti.

·      il consumo più frequente di uova ha ridotto le probabilità di dislipidemia rispetto all’assenza di uova o all’assunzione poco frequente di uova a sostegno della mancanza di effetto del colesterolo alimentare sui lipidi plasmatici e sulle lipoproteine.

Dalle metanalisi sono emerse le seguenti evidenze:

·      l’assunzione di un massimo di sei uova a settimana ha un’associazione inversa con gli eventi CVD, rispetto all’assenza di assunzione. Una tendenza simile è stata osservata per l’incidenza e la mortalità da malattia coronarica in cui il rischio è diminuito assumendo fino a due uova a settimana. Non è stata trovata alcuna associazione tra assunzione di uova e ictus.

·      il consumo moderato di uova non è associato a nessun rischio di sviluppare eventi CVD in generale, rischio che diminuisce ulteriormente nelle popolazioni asiatiche.

Dagli interventi clinici è emerso che:

·     la sostituzione della colazione ricca di carboidrati con le uova ha comportato un abbassamento del colesterolo LDL plasmatico rispetto al basale.

·     il colesterolo alimentare porta alla formazione di grandi particelle di HDL e all’aumento del numero di grandi particelle LDL note per essere meno aterogene e riduce la concentrazione delle piccole HDL e LDL, riconosciute come particelle altamente aterogeniche (capaci cioè di formare placche aterosclerotiche) per la loro capacità di ossidarsi, penetrare nella parete arteriosa e avviare il processo di aterosclerosi.

I dati sopra presentati indicano chiaramente la mancanza di correlazione tra colesterolo dietetico e colesterolo ematico. Queste osservazioni suggeriscono anche che il corpo presenta meccanismi specifici per gestire gli eccessi di colesterolo nella dieta:

·     ridotto assorbimento
·     soppressione della sintesi

L’assorbimento del colesterolo alimentare varia da individuo a individuo e comprende il colesterolo alimentare, il colesterolo biliare e, in una certa misura, la desquamazione epiteliale intestinale.

Nelle circostanze specifiche in cui le uova siano la fonte di colesterolo alimentare, si osserva un miglioramento delle dislipidemie dovuto alla formazione di lipoproteine meno aterogeniche e variazioni delle HDL associate ad un più efficiente trasporto inverso del colesterolo.

Tuttavia, se le fonti di colesterolo vengono consumate con grassi saturi e trans, come accade nella dieta occidentale, si possono osservare aumenti del colesterolo plasmatico.
I dati epidemiologici più recenti e gli interventi clinici per la maggior parte continuano a supportare la linea guida USDA 2015 che ha rimosso il limite superiore del valore di riferimento per il colesterolo alimentare.

Link all’articolo originale:
www.mdpi.com/2072-6643/14/10/2168/htm

Healthy food high in protein. Meat, fish, dairy products, nuts and beans. Top view

Un pò di chiarezza sulle proteine

Tra i macronutrienti fondamentali per il corretto funzionamento del metabolismo le proteine sono quelle che destano maggiori dubbi e incertezze.

Sui carboidrati come fonte di energia d’elezione non ci sono dubbi anche se ancora non c’è chiarezza sul diverso impatto che essi hanno con l’organismo in base al fatto se si tratti di pasta o pane o cereali in chicco, ma di questo non mi occuperò in questo articolo.

Sui lipidi si sa, sono ‘grassi, meglio starne alla larga!’…in realtà sono anch’essi fondamentali per varie funzioni, sia strutturali che termogeniche e ormonali; nella mia esperienza verifico che è abbastanza passata l’informazione della  differenza tra ‘grassi’ buoni e ‘cattivi’ e questo, seppur  non sufficiente a catalogare i lipidi è già abbastanza per modulare l’atteggiamento alimentare verso l’introduzione dei grassi nella dieta.

E sulle proteine? Qui si apre un baratro.

Nella mia attività mi capita spesso di incontrare persone adulte, normopeso o in sovrappeso,  che fino a poco tempo prima di incontrarci avevano uno stile di vita sedentario e avendo deciso di praticare un’attività fisica per 2 o al massimo 3 volte settimane in palestra con un allenamento di al massimo poco più di 1 ora pensano sia necessario incrementare l’apporto proteico. Niente di più scorretto!

Analizzando l’anamnesi alimentare di queste persone mi accorgo addirittura che le quote proteiche fino a quel momento erano addirittura insufficienti per uno stile di vita sedentario!

Le proteine dell’organismo svolgono funzioni strutturali, di trasporto e di deposito di nutrienti e altre sostanze, sono enzimi e ormoni, agiscono da recettori e da ligandi; sono coinvolte nella contrazione muscolare, nella risposta immunitaria, nella coagulazione del sangue; regolano l’espressione genica, la crescita e la differenziazione cellulare. Sebbene non sia il loro ruolo primario, sono anche un substrato energetico.

E’ quindi evidente quanto importante sia la copertura giornaliera del fabbisogno proteico affinché un metabolismo possa funzionare al massimo dell’efficienza.

Le proteine presenti nell’organismo sono molecole organiche azotate costituite dalla combinazione di 20 aminoacidi standard, la maggior parte sono autosintetizzati dall’organismo partendo da molecole precursori mentre 9 di questi aminoacidi standard sono  definiti essenziali perché non possono essere sintetizzati nell’organismo e devono essere forniti con la dieta.

Affinché una dieta sia in grado di fornire la giusta copertura della quota proteica giornaliera deve contenere alimenti con proteine di alta ‘qualità’.

Per qualità proteica si intende la capacità di una data quantità di proteina/miscela di proteine di soddisfare le necessità metaboliche dell’organismo per aminoacidi totali e aminoacidi essenziali. La qualità proteica varia in funzione della digeribilità della proteina e della sua composizione in aminoacidi essenziali.

In generale una dieta che contenga fonti proteiche provenienti sia da alimenti animali che vegetali è in grado di soddisfare le necessità dell’organismo.

Naturalmente è bene ricordare che sono fonti proteiche anche alimenti che non appartengono al gruppo di alimenti definiti ‘proteici’, per es. cerali e derivati coprono il 29% delle fonti proteiche degli italiani (fonte Larn – Revisione IV 2014).

Quando si decide di migliorare il proprio stile di vita e quindi ritrovare il benessere attraverso l’introduzione di un’attività fisica costante è necessario anche valutare il proprio stato nutrizionale e prima di approcciare un aumento dell’introito proteico per Kg di peso corporeo in funzione dell’attività scelta, sarebbe bene valutare se fino a quel momento c’è stata un’alimentazione equilibrata che potesse soddisfare almeno il fabbisogno ‘a riposo ’.

In generale un metodo per valutare l’adeguatezza dell’ introito proteico, in regime onnivoro o latto-ovo-vegetariano,  è verificare se sono presenti 3 porzioni di alimento appartenente al gruppo ‘alimenti proteici’ in una giornata: una a colazione, una a pranzo e una a cena sempre accompagnate naturalmente da un’adeguata porzione di cereale e verdura e/o frutta a ciascuno dei 3 pasti.

Choice of Sweetener in tablets or regular sugar. Alternative to sugar for diabetics. A man holds sugar in one hand in another sugar sauce in tablets.

Nuove conferme: i dolcificanti alterano il microbiota e il metabolismo degli zuccheri

I dolcificanti sostituti dello zucchero, anche se a bassissimo tenore calorico, non sono affatto inerti nell’organismo umano, e alcuni di essi possono avere effetti nocivi, perché interferiscono con il microbiota intestinale, modificandone la composizione e, quindi, le funzioni. Anche per questo la ricerca di nuove molecole è continua e propone alternative che sembrano migliori, come una miscela che contiene mogroside, sintetizzata a partire dall’estratto di una pianta.

Il fatto che edulcoranti (questo è il termine corretto per definire quelli che comunemente vengono detti dolcificanti) in uso in tutto il mondo da decenni, al di là delle calorie, non siano del tutto innocui, è noto da tempo, ma ora uno studio appena pubblicato sulla rivista Cell dai ricercatori del Weizmann Institute of Science, in Israele, lo conferma, aiutando anche a capire che cosa, specificamente, si verifichi dopo l’assunzione di quattro composti. Per comprenderlo, i ricercatori hanno selezionato, in un campione iniziale di 1.300 persone, 120 soggetti che non assumevano mai edulcoranti, in base a una loro scelta, ed erano adatti per studiarne l’effetto. Quindi hanno suddiviso il campione in sei sottogruppi, due di controllo e quattro ai quali è stato chiesto di assumere dosi nettamente inferiori a quelle massime (indicate dalla Fda) di aspartame, saccarina, stevia o sucralosio. Dopo l’assunzione i ricercatori  hanno analizzato la composizione del microbiota intestinale e anche la concentrazione nel sangue di alcuni metaboliti che svolgono un ruolo importante nel mantenimento dell’equilibrio glicemico. Hanno così visto che ognuno dei quattro edulcoranti altera significativamente le popolazioni batteriche residenti e che la saccarina e il sucralosio interferiscono direttamente con il metabolismo degli zuccheri.

Per capire meglio, gli autori hanno fatto un passo ulteriore, e cioè hanno trasferito campioni microbici dei volontari in animali germ free che, cioè, erano stati cresciuti in ambienti sterili e, di conseguenza, non avevano un proprio microbiota. Hanno così confermato che in tutti gli animali che avevano ricevuto il microbiota condizionato dai dolcificanti si vedevano alterazioni del metabolismo degli zuccheri e che tali anomalie erano del tutto simili a quelle già viste nei volontari umani, mentre in quelli che avevano ricevuto il microbiota di controllo non si vedevano modifiche del metabolismo glucidico. Questo dato ha fatto capire che le alterazioni causate dagli edulcoranti sono molto specifiche e variano da persona a persona, perché dipendono anche dalla microflora preesistente e dalle condizioni di salute di chi li assume.

La conclusione degli autori è che bisogna spiegare ai consumatori che questi prodotti non sono inerti e che gli effetti a lungo termine sono in gran parte sconosciuti, soprattutto per chi li utilizza regolarmente. Inoltre bisognerebbe abituare le persone a ricercare meno spesso il gusto dolce e, contemporaneamente, continuare a lavorare per trovare sostituti dello zucchero più sicuri.

A quest’ultima richiesta risponde idealmente lo studio pubblicato su Journal of Agricultural and Food Chemistry. Il lavoro illustra le caratteristiche di una nuova miscela messa a punto dall’Istituto di ricerca in scienze dell’alimentazione (Cial) di Madrid che potrebbe avere un effetto opposto sul microbiota, e cioè agire da prebiotico. In questo caso, infatti, gli autori sono partiti da una famiglia di zuccheri ben noti, i galatto-oligosaccaridi, presenti nel latte materno, a basso contenuto calorico e con qualità prebiotiche, ma anche poco dolci, e per questo non utilizzati come sostituti dello zucchero. Poi hanno studiato un secondo componente, membro della famiglia dei mogrosidi, estratti dal frutto cinese chiamato luo han guo o monk fruit (Siraitia grosvenorii), da 200 a 300 volte più dolci dello zucchero, di solito con un retrogusto che li rende poco appetibili, correggibile però con enzimi.

Unendo quindi il lattosio (il galatto-oligosaccaride più noto), il mogroside V e l’enzima beta galattosidasi gli autori hanno ottenuto una miscela che, sottoposto a un panel di ricercatori esperti del settore, è risultato del tutto simile al saccarosio. Inoltre, sperimentato sul microbiota intestinale in test in vitro, si è dimostrato capace di stimolare le due famiglie batteriche più benefiche, i lattobacilli e i bifidobatteri, e di far aumentare i loro metaboliti più preziosi come l’acido butirrico e l’acido propionico. Ora i test proseguono per verificare tutte le caratteristiche della miscela. Se i primi risultati dovessero essere confermati, i dolcificanti di nuova generazione potrebbero avere caratteristiche decisamente migliori rispetto a quelli tradizionali.

Agnese Codignola – giornalista scientifica de “Il Fatto Alimentare” 30 Agosto 2022

mondo nel piatto

Consapevolezza alimentare, una nuova tappa evolutiva

Sempre più spesso mi capita di sentire persone che accusano malessere generale nonostante abbiano un’alimentazione apparentemente equilibrata.

“Con il lock-down mi sono lasciata/o andare  e ho accumulato sovrappeso” oppure “Mangio bene, mangio poco ma ho un leggero sovrappeso che non riesco a smaltire e un generale senso di stanchezza, di non essere in forma”.

Il nostro corpo ci parla; la pandemia ha creato una cassa di risonanza affinché potessimo metterci meglio in ascolto e provare ad evolverci.

Ci stiamo finalmente accorgendo che lo stato di benessere ha a che fare non  solo con l’assenza di malattia ma soprattutto con una stabile condizione di benessere psico-fisico (definizione dell’OMS). Non basta più prestare attenzione a dosi e qualità del cibo ma è necessario occuparci anche della provenienza e della ricaduta che le scelte alimentari hanno sulla nostra psiche e sull’ambiente in generale non solo da un punto di vista degli aspetti fisici ma soprattutto per gli effetti che si manifestano sul comportamento di tutti gli esseri viventi che abitano questo pianeta.

Ma andiamo con ordine.

Abraham Harold Maslow, studioso specializzato nella psicologia comportamentista, nel 1954 elaborò una gerarchia di bisogni fondamentali dell’uomo nota come ‘piramide di Maslow’  che sono incondizionati e che possono essere utilizzati come basi sulle quali costruire apprendimenti e condizionamenti.

  • i bisogni fisiologici (mangiare, bere, dormire)
  • i bisogni di sicurezza (fisica, economica, di salute)
  • i bisogni di appartenenza (famiglia, amici, comunità)
  • i bisogni di stima (principi che ispirano le nostre azioni, bisogni più interiori)
  • i bisogni di autorealizzazione (spiritualità, sviluppo e appagamento interiore)

Sulla base di questa piramide potremmo innestare i livelli di consapevolezza alimentare di Michio Kushi, allievo di George Oshawa, padre fondatore della macrobiotica:

  • alimentazione meccanica – i bisogni fisiologici
  • alimentazione sensoriale ed emotiva – i bisogni di sicurezza
  • alimentazione intellettuale e sociale – i bisogni di appartenenza
  • alimentazione ideologica – i bisogni di stima
  • alimentazione libera – i bisogni di autorealizzazione

Analizziamo ciascuna di queste modalità di alimentazione.

Alimentazione meccanica: è il livello di nutrizione di chi si alimenta in modo automatico, senza badare più di tanto a ciò che ha nel piatto, senza assaporare il cibo e con l’unico scopo di soddisfare la fame e riempirsi la pancia.

Alimentazione sensoriale ed emotiva: l’attenzione è posta sui sapori, sui colori, gli odori. Affidarsi esclusivamente all’appetibilità dell’alimento è un rischio per la salute umana;  in questo nostro contesto storico-economico-sociale l’industria alimentare conosce bene i meccanismi del metabolismo umano e la sensibilità verso il dolce e il salato in modo particolare e spesso gli alimenti risultano ‘prefabbricati’ con aggiunta di zuccheri o grassi o sale in modo da aumentarne l’appetibilità e quindi il commercio con conseguenze disastrose per la salute dell’organismo.

Alimentazione intellettuale e sociale: si basa sulla presa di coscienza che le nostre abitudini alimentari hanno una ricaduta sia a livello personale e sociale; si ha conoscenza delle informazioni ‘tecniche’ nutrizionali (conteggio delle calorie, quantità di vitamine, minerali, fibre,…). E’ un approccio tipicamente occidentale che non considera l’individuo nel suo complesso e che non punta al recupero dell’equilibrio, ma all’eliminazione del sintomo.

Alimentazione ideologica: livello basato su scelte ideologiche, religiose o etiche. Si comincia a prendere consapevolezza che l’individuo non è estrapolato dal suo ambiente ma rimane comunque un livello di alimentazione vincolato da rigide regole.

Alimentazione libera: questo è il livello di alimentazione al quale aspirare nella sua pienezza; libera non vuol dire casuale o istintiva, ma estremamente consapevole che ci permette di scegliere il cibo in armonia con l’ordine universale. Mettersi a ritmo con il funzionamento del sistema Vita necessita di un approfondimento della coscienza, della consapevolezza di sé che può e deve passare per le scelte alimentari ma che richiede un lavoro di ristrutturazione di tutto il sistema Vita.

Scegliere cibi integrali, scegliere il Km zero, scegliere di non consumare zuccheri, scegliere di non consumare cibi confezionati, scegliere di preparare pietanze base in casa…con consapevolezza, gusto e gioia, questo l’obiettivo. Il risultato sarà non solo corpi sani e in forma ma anche pensieri, idee, abilità dalla qualità superiore.

Una mission impossible?

Forse…o forse no. Un viaggio comincia sempre da un passo, qualunque direzione si scelga non ha importanza basta decidere di fare il primo passo…intanto cominciamo a parlarne, di strade da percorrere ce ne sono molte…

Carote sito

Carote…crude o cotte?

Se osserviamo bene una carota sembra che dica ‘vado dritta verso il centro della Terra per rifornirmi di energia e torno su’ 🙂

La carota è un concentrato di tutte le sostanze necessarie per la sopravvivenza: acqua, fibre, zuccheri buoni, minerali, metalli e oligoelementi tra cui il ferro (0,7gr in 100gr, non male per un vegetale); il manganese importantissimo per il metabolismo di zuccheri, grassi e proteine; il potassio, tonico cardiaco e muscolare, stimola i movimenti intestinali. Il colore arancione si deve al betacaraotene, antiossidante d’eccellenza, precursore della vitamina A importante per la salute degli occhi, della pelle, delle ossa e per la sintesi di molte proteine, tra cui quelle deputate al regolare funzionamento del sistema immunitario. Attenzione però a come si decide di mangiarle! Crude intere o affettate o cotte non è la stessa cosa.

Se decidete di mangiarle crude…

Le carote crude possono essere mangiate in molti modi: affettate, tagliate a julienne oppure in centrifuga. In ogni caso per ricavare dalle carote il massimo beneficio è necessario sottoporle a un ‘trauma’ da taglio (affettate con il coltello) oppure un trauma meccanico (grattugia o frullatore).   Sgranocchiare carote crude è un comportamento comunque salutare , per l’effetto benefico delle fibre sulle gengive e sull’intero apparato digerente ma non permette di assorbire efficacemente la molecola più interessante delle carote, il betacarotene. Inoltre, per essere facilmente assorbiti dall’intestino i carotenoidi devono essere inglobati in micronavicelle dette micelle,  la cui formazione è favorita dalla presenza di grassi nel pasto: via libera dunque all’olio extravergine di oliva come condimento basilare per le carote che aumenta non l’assorbimento del betacarotene ma anche la sua disponibilità a livello cellulare.

Se invece le mangiate cotte…

Mangiare carote cotte consente di  ottenere l’assorbimento massimo possibile della molecola più  interessante e benefica, il betacarotene: 39%  contro l’11% che si ricava mangiando carote crude.

 

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Carenza di Ferro

Il ferro è il microelemento più abbondante nell’organismo, svolge un ruolo fondamentale nel trasporto e utilizzo di ossigeno nei vari tessuti  attraverso l’emoglobina e la mioglobina che lo contengono; è parte integrante di molti enzimi implicati nella produzione di energia;  come cofattore del citocromo P450 partecipa alla sintesi del colesterolo, degli ormoni steroidei, degli eicosanoidi (regolano sist. cardiovascolare, coagulazione del sangue, funzione renale, risposta immunitaria, infiammazione, e altre funzioni) e della vit. D, e partecipa  al metabolismo e all’escrezione di xenobiotici e farmaci

La carenza di ferro è forse il problema nutrizionale più diffuso nella popolazione mondiale anche nei paesi che godono di condizioni socio/economiche più favorevoli.

In Europa si calcola che il 30% delle donne in età fertile e degli adolescenti è carente di ferro.

Tale carenza è dovuta alla caratteristica del ferro di presentarsi negli alimenti in una duplice forma chimica: eme e non-eme. Tali due forme non sono parimenti assorbibili dal nostro organismo.

L’assorbimento del ferro avviene perlopiù nel duodeno.

Il ferro eme è presente soprattutto nelle carni (le interiora in particolare), nei prodotti della pesca e in tutti i prodotti animali in genere e rappresenta il 40%  circa del ferro totale in questi alimenti. Il suo assorbimento non è modificato da altri fattori.

Il ferro non-eme rappresenta la quota restante (60%) del ferro contenuto nelle carni e nel pesce ed è presente in particolare nei prodotti vegetali e nelle uova. Viene assorbito in una percentuale inferiore rispetto al ferro eme. Le diete vegane forniscono esclusivamente ferro non-eme.

L’assorbimento del ferro, sia eme che non-eme, avviene in proporzione inversa alle riserve di ferro nell’organismo. Tanto più il ferro scarseggia, tanto più l’organismo ne attiva l’assorbimento.

In condizioni fisiologiche di corretto apporto e sufficienti riserve di ferro, la forma chimica maggiormente assorbibile dal nostro intestino è il ferro eme.

Quando le riserve diminuiscono , l’assorbimento del ferro non-eme sembra superiore a quella del ferro eme.

L’efficienza di assorbimento del ferro non-eme dipende da diversi fattori assunti nello stesso pasto:

Fattori favorenti: il consumo, nello stesso pasto, di alimenti che contengono acido ascorbico (vit. C) e cisteina e in generale di alimenti acidificanti e di proteine animali, migliora l’assorbimento del ferro.

Fattori inibenti: l’acido fitico  che si trova soprattutto nei cereali integrali, legumi e frutta secca e i polifenoli come l’ac. tannico e clorogenico che si trovano nel caffè, nel tè, nel vino rosso e molti cereali e spezie; il consumo nello stesso pasto di elevate quantità di calcio contenuto soprattutto nel latte e derivati; le proteine della soia e le uova.

Entrambi i fattori (favorenti o inibenti) possono far variare di dieci volte, in più o in meno, la quantità di ferro assorbito.

L’assorbimento del ferro, sia eme che non-eme, è correlata anche alla presenza di altri elementi: vit. B12, ac. folico e rame. Per es. il rapporto ferro/rame  deve essere 0,8. Se tale rapporto è cronicamente squilibrato, si può verificare anemia. Questo rapporto sembra essere indicatore di funzionalità immunitaria. Quando tale rapporto è elevato, l’individuo presenta un terreno favorevole allo sviluppo di infezioni batteriche. In caso di dominanza del rame, il terreno è predisposto allo sviluppo di virus e funghi.

Il gruppo alimentare “Cereali e derivati” risulta la prima fonte di ferro e fornisce il 31% del ferro assunto, con il 18% che proviene da pane e pasta. I gruppi “Carne e derivati” e “Verdure e ortaggi” forniscono rispettivamente il 17% e il 14% del totale (Dati ex Inran 2009).

legumi_secchi

Sui Legumi

I legumi sono un ottimo alleato in caso di diete ipocaloriche per la necessità di perdere peso.

Insieme ai cereali, i legumi hanno costituito la base energetica su cui l’uomo si è sostenuto per migliaia di anni.

La Dieta Mediterranea patrimonio dell’Unesco riconosce ai legumi un posto d’onore nella frequenza e quantità di consumo. Sì, perché ricordiamoci che i legumi sono una straordinaria fonte di proteine vegetali, di fibre solubili,  di vitamine e minerali  e di lipidi  e soprattutto di energia.

L’apporto energetico varia, per 100gr, da 330Kcal per le lenticchie secche a poco più di 400Kcal per i lupini secchi, e quindi un introito calorico praticamente simile a quello fornito da 100gr di pasta.

Contemporaneamente i legumi forniscono proteine: nei semi secchi la percentuale di proteine varia da un minimo del 18% , in alcuni tipi di ceci, a un massimo del 44% nei lupini (per confronto il tenore proteico della carne è circa il 18-20%). Sebbene la proteina di un legume sia considerata incompleta perché ha un basso contenuto dell’amminoacido metionina, il nostro organismo la trasformerà in una proteina completa di alta qualità se nello stesso giorno saranno ingeriti anche cereali, semi, latticini e carne.

100gr di legumi secchi forniscono da 2 a 7mg di Ferro la cui utilizzazione è facilitata dalla germinazione del seme. I legumi inoltre contengono buone quantità di magnesio, calcio e vitamine del gruppo B.

Il tipo di fibra fornita dai legumi è solubile e quindi in grado di abbassare i livelli di colesterolo plasmatico e di stabilizzare i livelli di zuccheri nel sangue grazie al loro bassissimo indice glicemico.

Di contro c’è da dire che la fibra dei legumi contiene zuccheri (oligosaccaridi) che a livello intestinale vengono fermentati con formazione di gas da cui il fastidioso meteorismo. Questa azione negativa però può essere notevolmente ridotta mettendo ‘a bagno’ i legumi secchi per 12 ore e con una cottura prolungata oppure consumarli decorticati o passati.

In una dieta mediterranea onnivora il consumo di legumi si attesta intorno alle 3 volte a settimana, in una dieta vegetariana il consiglio è di inserirli regolarmente nella dieta giornaliera e per i vegani, almeno 1-2 volte al giorno come piatto principale.

bevande zuccherate

Zuccheri…cominciamo a parlarne

Nella maggioranza dei casi l’obesità pediatrica è dovuta a uno sbilanciamento tra le calorie ingerite e il dispendio energetico, con un conseguente accumulo di grasso in eccesso, cioè si mangia troppo e/o si brucia troppo poco. Ciò è frutto di un’interazione tra due fattori ambientali: il consumo di cibo molto calorico e uno stile di vita sedentario in cui ci si muove troppo poco. In questo caso si parla di obesità essenziale e l’approccio terapeutico è incentrato sulle modifiche dello stile di vita.

Mangiare troppo.

Sembra un concetto semplice ma vi assicuro che nell’era del consumismo, del benessere dei paesi occidentali e sviluppati, non lo è affatto.

Si ‘mangia troppo’ quando si introducono più calorie di quante ne servono e se ne spendono.  Ma è proprio chiaro a tutti ‘quanto cibo’ è giusto introdurre?

Lasciando da parte i discorsi sul conteggio delle calorie (poco rilevante a mio avviso) mi interessa focalizzare l’attenzione sull’indice glicemico.

L’indice glicemico (IG) misura la velocità con cui si verifica l’aumento di glucosio nel sangue in seguito all’assunzione di cibo che contiene carboidrati, paragonato a un alimento che ha un indice glicemico pari a 100 (glucosio o pane bianco).

Se un prodotto ha IG pari a 60, significa che assumendo 50gr di quel cibo, la glicemia sale del 60% rispetto a quanto aumenterebbe con 50gr di glucosio (o pane bianco).

Un IG è alto se è maggiore di 70 (pane bianco, miele, patate, crackers); medio se è tra 56 e 69 (ananas, muesli, cornflakes, uva, pane di segale, pasta); basso se il suo valore è inferiore a 55 (prugne, albicocche, lenticchie, yogurt, latte di soia, fagioli).

L’indice glicemico si concentra essenzialmente sulla ‘qualità’ dei carboidrati, mentre il carico glicemico (CG) si focalizza sulla ‘quantità’ specifica del carboidrato assunto e sul contenuto di zuccheri per porzione.

Il CG indica la risposta glicemica calcolata in base alla quantità di carboidrati di quell’alimento, cioè IG x grammi di carboidrati dell’alimento. Dividendo poi questo valore per 100 si avrà il valore del carico glicemico. Si considera CG basso se inferiore a 10 (zucca, anguria, melone, pane di segale, pesche, kiwi), moderato tra 10 e 20 (pane integrale, banane, riso integrale), alto se superiore a 20 (maccheroni, gnocchi di patate, riso bianco).

Perché è importante conoscere l’indice glicemico e il carico glicemico?

Come molti studi hanno confermato, la scelta di cibi con ridotto indice glicemico e carico glicemico, come per es. le verdure e i legumi, consente di evitare i rapidi e cospicui aumenti di glicemia e insulina e di ottenere un miglior controllo sulla glicemia, e ciò è importante sia nei soggetti diabetici che in coloro che vogliono prevenire il diabete. Il consumo abituale di pasti ad alto indice glicemico determina invece continui picchi di secrezione di insulina dopo il pasto per contrastare gli alti livelli di glucosio nel sangue, e ciò pone sotto stress le cellule del pancreas che a lungo termine potrebbero esaurire la loro capacità di produrre insulina e/o  portare a sviluppare la resistenza insulinica.

La risposta glicemica dipende da molteplici fattori legati alla natura dell’alimento che abbiamo mangiato e anche dagli altri cibi assunti durante il pasto.

Meritano un articolo dedicato il tipo di zuccheri, la natura e la forma dell’amido e la presenza di altri nutrienti all’interno del cibo o del pasto che possono ridurre l’assorbimento dei carboidrati.

Una cosa però è certa: chi mi conosce sa che non smetterò mai di ripetere fino alla nausea quanto i cibi industriali, in particolare merendine e similari e soprattutto bevande zuccherate siano un vero e proprio attentato alla salute pubblica.

Naturalmente non possiamo attribuire solo al cibo ‘spazzatura’ la responsabilità dell’obesità.

In America si dice “the devil is in the details’, ‘il diavolo è nei particolari’. Spesso una dieta ricca in carboidrati in forme ‘insospettabili’ è responsabile di sovrappeso e squilibri metabolici più di una dieta ricca di altri alimenti con moderati accessi a dolci e simili. Per es., a parità di quantità, lo zucchero da cucina fa aumentare meno rapidamente il glucosio nel sangue rispetto a pane, patate, riso e frutta.

Rimane comunque altissimo il rischio riguardo al  consumo di bevande zuccherate considerando 2 cose:

  • In un mezzo liquido lo zucchero è percepito meno dalla nostra lingua e quindi riusciamo ad introdurne alte quantità inconsapevolmente;
  • Leggendo l’etichetta delle bibite, ricordarsi sempre della celebre frase di Pollan “Non mangiate nulla con più di 5 ingredienti o con ingredienti che vostra nonna non riconoscerebbe come cibo o non saprebbe pronunciare”.                                                                                                                                                                        Molto interessante questo articolo apparso su “Il fatto alimentare”    :       https://ilfattoalimentare.it/coca-cola-lobbying-obesita.html